Il Corvo, una poesia di Poe tradotta da Ernesto Ragazzoni

Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato
meditavo sovra un raro, strano codice obliato,
e la testa grave e assorta — non reggevami piú su,
fui destato all’improvviso da un romore alla mia porta.

«Un viatore, un pellegrino, bussa — dissi — alla mia porta,
                          solo questo e nulla più!»

Questi sono i primi versi della celebre poesia "Il corvo" di Edgar Allan Poe (1845), che fu tradotta per la prima volta in italiano nel 1891 da Ernesto Ragazzoni, poeta e giornalista originario di Orta San Giulio, il quale a sua volta era rimasto affascinato dalla traduzione francese (1859) realizzata dal “poeta maledetto” per eccellenza, Charles Baudelaire.


Si narra che egli, durante il soggiorno in Inghilterra, si sia addentrato in un bosco di  notte per assistere a rituali magici condotti forse dal famigerato mago inglese Aleister Crowley. Attorno a questo discusso personaggio circola una "leggenda nera" in cui è difficile distinguere la realtà dalla finzione narrativa.
Tra le cose certe c'è che per circa vent'anni Crowley visse in una casa, Boleskine House, sulle sponde del lago di Loch Ness, nelle cui acque si dice possa nascondersi il famoso mostro. Si racconta, inoltre, che San Colombano salvò un uomo dall'assalto di questo mostro. 
Ragionando per libere associazioni di pensiero, tutto ciò sembra curiosamente riecheggiare alcuni dettagli caratteristici della zona del Cusio. Ad  esempio la leggenda per cui anche sul lago d'Orta si racconta dell'esistenza di draghi mostruosi scacciati poi dall'evangelizzatore San Giulio, oppure il fatto che a Briga Novarese esista la nota chiesa di San Colombano, dalla quale si gode di una vista panoramica sul territorio dell'Alto Novarese.

Il 7 ottobre, mese in cui iniziano a calare le prime autunnali nebbie sulle nostre terre, ricorre l'anniversario della morte di Edgar Allan Poe, avvenuta nel 1849. Per ricordarlo vi proponiamo la lettura integrale della poesia "Il corvo" nella traduzione di Ragazzoni:

Una volta, a mezzanotte, mentre stanco e affaticato
meditavo sovra un raro, strano codice obliato,
e la testa grave e assorta — non reggevami piú su,
fui destato all’improvviso da un romore alla mia porta.
5«Un viatore, un pellegrino, bussa — dissi — alla mia porta,
                          solo questo e nulla più!»

Oh, ricordo, era il dicembre e il riflesso sonnolento
dei tizzoni in agonia ricamava il pavimento.
Triste avevo invan l’aurora — chiesto e invano una virtù
10a’ miei libri, per scordare la perduta mia Lenora,
la raggiante, santa vergine che in ciel chiamano Lenora
                          e qui nome or non ha più!

E il severo, vago, morbido, ondeggiare dei velluti
mi riempiva, penetrava di terrori sconosciuti!
15tanto infine che, a far corta — quell’angoscia, m’alzai su
mormorando: «È un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
un viatore o un pellegrino che ha battuto alla mia porta,
                          questo, e nulla, nulla più!».

Calmo allor, cacciate alfine quelle immagini confuse,
20mossi un passo, e: «Signor — dissi — o signora, mille scuse!
ma vi giuro, tanto assorta — m’era l’anima e quassù
tanto piano, tanto lieve voi bussaste alla mia porta,
ch’io non sono ancor ben certo d’esser desto». Aprii la porta:
                          un gran buio, e nulla più!

25Impietrito in quella tenebra, dubitoso, tutta un’ora
stetti, fosco, immerso in sogni che mortal non sognò ancora!
ma la notte non dié un segno — il silenzio pur non fu
rotto, e solo, solo un nome s’udì gemere: «Lenora!»
Io lo dissi, ed a sua volta rimandò l’eco: «Lenora!»
                          
30Solo questo e nulla più!

E rientrai! ma come pallido, triste in cor fino alla morte
esitavo, un nuovo strepito mi riscosse, e or fu sì forte
che davver, pensai, davvero — qualche arcano avvien quaggiù,
qualche arcan che mi conviene penetrar, qualche mistero!
35Lasciam l’anima calmarsi, poi scrutiam questo mistero!
                          Sarà il vento e nulla più!

Qui dischiusi i vetri e torvo, — con gran strepito di penne,
grave, altero, irruppe un corvo — dell’età la più solenne:
ei non fece inchin di sorta — non fe’ cenno alcun, ma giù,
40come un lord od una lady si diresse alla mia porta,
ad un busto di Minerva, proprio sopra alla mia porta,
                          scese, stette e nulla più.

Quell’augel d’ebano, allora, così tronfio e pettoruto
tentò fino ad un sorriso il mio spirito abbattuto:
45e, «Sebben spiumato e torvo, — dissi, — un vile non sei tu
certo, o vecchio spettral corvo della tenebra di Pluto?
Quale nome a te gli araldi dànno a corte di Re Pluto?»
                          Disse il corvo allor: «Mai più!».

Mi stupii che quell’infausto disgraziato augello avesse
50la parola, e benché quelle fosser sillabe sconnesse,
trasalii, ché, in niuna sorta — di paese fin qui fu
dato ad uom di contemplare un augel sovra una porta,
un augello od una bestia aggrappata ad una porta
                          con un nome tal: «Mai più!».

55Ma severo e grave il corvo più non disse e stette come
s’egli avesse messo tutta quanta l’anima in quel nome:
sovra il busto, appollaiato — non parlò, non mosse più
finché triste ebbi ripreso: «Altri amici m’han lasciato!
il mattin non sarà giunto ch’egli pur m’avrà lasciato!».
                          
60Disse allor: «Mai più! mai più!».

Scosso al motto ch’or sì bene s’era apposto al mio pensiere,
«Certo, — dissi, — queste sillabe sono tutto il suo sapere!
e chi a tale ritornello — l’addestrò, forse quaggiù
sarà stato sì infelice ch’ogni canto suo più bello
65come un requiem, non aveva ogni canto suo più bello
                          a finir che in un mai più

Ma un pensier folle ancor voltomi a un sorriso il labbro torvo:
scivolai su un seggiolone fino in faccia al busto e al corvo,
e qui, steso nel velluto — presi intento a studiar su
70cosa mai volesse dire quel ferale augel di Pluto,
quel feral, sinistro, magro, triste, infausto augel di Pluto
                          col suo lugubre: «Mai più!».

Così assorto in fantasie stetti a lungo, e sempre intento
all’augello i di cui sguardi mi riempivan di spavento,
75non osai più aprire labro — sprofondato sempre giù
fra i cuscini accarezzati dal chiaror di un candelabro
fra i cuscini rossi ov’ella, al chiaror di un candelabro,
                          non verrà a posar mai più!

Allor parvemi che a un tratto si svolgesse in aria, denso
80e arcan, come dal turibolo d’un angelo, un incenso.
«O infelice, dissi, è l’ora! — e infin ecco la virtù
e il nepente che imploravi per scordar la tua Lenora!
Bevi, bevi il filtro e scorda! scorda alfin questa Lenora!»
                          Mormorò l’augel: «Mai più!».

85«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora!
o l’Averno t’abbia inviato — o una raffica di bora
t’abbia, naufrago, sbalzato — a cercar asil quaggiù,
in quest’antro di sventure, di’ al meschino che t’implora,
se qui c’è un incenso, un balsamo divino! egli t’implora!»
                           
90Mormorò l’augel: «Mai più!».

«O profeta — urlai — profeta, spettro o augel, profeta ognora!
per il ciel sovra noi teso, per l’Iddio che noi s’adora
di’ a quest’anima se ancora — nel lontano Eden, lassù,
potrà unirsi a un’ombra cara che chiamavasi Lenora!
95a una vergine che gli angeli ora chiamano Lenora!»
                           Mormorò l’augel: «Mai più!».

«Questo detto sia l’estremo, spettro o augello — urlai sperduto.
Ti precipita nel nembo! torna ai baratri di Pluto!
non lasciar piuma di sorta — qui a svelar chi fosti tu!
100lascia puro il mio dolore, lascia il busto e la mia porta!
strappa il becco dal mio cuore! t’alza alfin da quella porta!»
                           Disse il corvo: «Mai, mai più!»

E la bestia ognor proterva — tetra ognora, è sempre assorta
sulla pallida Minerva — proprio sopra alla mia porta!
105Il suo sguardo sembra il guardo — d’un dimon che sogni, e giù
sui tappeti il suo riflesso tesse un circolo maliardo,
e il mio spirto, stretto all’ombra di quel circolo maliardo
                           non potrà surger mai più!



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